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Content Designer: chi è, cosa fa

Maggio 31, 2021 da Officina Microtesti

Quando si parla di scrittura per il web si parla spesso di Content Design. Fuori dall’Italia, l’attività di chi si occupa di questa disciplina confina con lo UX Writing. Cerchiamo allora di fare chiarezza.

Cosa fa un-a Content Designer

Content design è il termine coniato da Sara Winters (ex Richards) di Content Design London quando lavorava al sito pubblico più copiato e invidiato al mondo: Gov.uk.
Content design è il termine che descrive quell’attività di progettazione del contenuto che serve a “dare al pubblico il contenuto di cui ha bisogno, nel momento in cui ne ha bisogno e nel modo che si aspetta” usando dati e ricerca (Sara Richards, Content Design, Content Design London, 2017).

La definizione della professione del Content designer si trova infatti sul sito Gov.uk: “Un content designer lavora sull’intero flusso di un servizio per aiutare gli utenti a raggiungere il loro obiettivo.”

Introduzione al ruolo di Content designer, come presentata sul sito di Gov.uk.

Un-a Content designer progetta i contenuti lunghi di una pagina che ha come obiettivo aiutare le persone a compiere un’azione. Nel sito Gov.uk, per esempio, la progettazione dei contenuti ha come fine permettere alle persone di usare al meglio e in modo semplice i servizi pubblici.

Un esempio è la pagina dedicata a bambini e genitori: ogni contenuto (Permessi di maternità, di paternità, diritti delle lavoratrici incinte e altro) usa un linguaggio quotidiano e risolve in modo chiara tutti i dubbi pratici di chi legge.

Cosa fare se si aspetta un bambino nel Regno Unito? Le risposte del sito Gov.uk

Cosa fa chi si occupa di Content design

Chi si occupa di Content design lavora a contatto con chi fa user research, con Content strategist, SEO specialist, service designer e interaction designer. Il suo compito è analizzare i dati di ricerca per creare o modificare un testo e mostrarlo all’utente dove si aspetta di trovarlo e nel formato migliore.

Un-a Content designer condivide con un-a UX Content strategist alcune attività di ricerca e progettazione. C’è però una differenza sostanziale. Un-a Content designer è una figura di interscambio che unisce tre mondi apparentemente distanti:

  • il mondo della ricerca, dei dati e della statistica, per identificare e analizzare i bisogni e le relazioni tra cliente e azienda o tra cittadino e pubblica amministrazione;
  • il mondo del design, delle interfacce grafiche e delle user journey, per lavorare su progetti di prototipazione di prodotti digitali;
  • il mondo del linguaggio, dell’usabilità delle parole e della chiarezza di intenti, per trovare un punto di incontro fra quello che il sito web vuole dire e quello che l’utente ha bisogno di sentire.  

Molto del lavoro di Content Design London è dedicato a come progettare il contenuto in modo etico per offrire servizi e prodotti comprensibili ad un pubblico ampio. Nel 2019, ha creato le Readability Guidelines, una guida collaborativa alla leggibilità e all’accessibilità dei testi basata su:

  • dati statistici sulle parole più cercate e usate;
  • ricerche qualitative che dimostrano l’usabilità di un servizio o prodotto;
  • best practices di progettazione del contenuto verificate con test di usabilità.

Come scrive Nicola Bonora, chi fa Content design “progetta contenuti in funzione di uno scopo” (in Content design. Progettare contenuti web che fanno incontrare persone e aziende, Apogeo, 2019). 

Content Designer o UX Writer?

Fuori dall’Italia, la figura dedicata allo UX Writing è chiamata spesso Content designer. Chi si occupa di UX Writing è d’altronde un-a Content Designer, cioè una persona che progetta i contenuti in tutta la navigazione di un sito web o un’app secondo le regole della user experience.

Content designer è quindi un termine ampio, che racchiude tutte le attività progettuali dello UX Writing e che le completa aggiungendo ai microtesti anche la progettazione di testi più lunghi e di servizio.

La voce umana della tecnologia

Febbraio 11, 2021 da Officina Microtesti

Ci hanno affidato il compito di dare una personalità unica a un brand che possiede un sistema articolato di siti web, app e chatbot, con una richiesta specifica: dare una voce umana alla tecnologia.
Il compito ci è sembrato subito facile, una passeggiata: ovviamente non era così. Com’è fatta la voce umana della tecnologia?
In questo articolo parliamo di conversazioni umane e interfacce digitali.

La facilità è fluida

Pensiamo a una scena fantascientifica (in questo momento storico): sono a una festa, non conosco nessuno. Un gruppo di persone parla di qualcosa che mi è familiare, per argomento o per linguaggio: entrare in chiacchiere è semplice.
Nel digitale, l’altra regole di conversazione che funziona è basata sulla fluidità: una informazione familiare, cioé scritta in modo accessibile, mi rassicura e mi dà la sensazione che quell’interfaccia voglia creare con me una relazione duratura.   
La sensazione di facilità piace al nostro cervello, e in particolare al sistema che elabora i dati in modo semi-automatico.

Il Sistema 1 (si chiama così) crea uno schemino agile:
più facile = migliore = più affidabile = più piacevole.
In una parola, preferibile. 

Il Nintendo Effect

Dopo aver visto in TV la pubblicità del Nintendo Ring Fit, abbiamo chiamato questa sensazione Nintendo Effect.
Il Nintendo Ring Fit è un videogame che ti permette di giocare mentre ti alleni: in pratica fai gli addominali con il ring del pilates mentre spari ai mostroni. 
Si suda come in spiaggia ad agosto ma il cervello non percepisce la fatica e lo stress dell’attività fisica.

Otteniamo un obiettivo (restare in forma) quasi senza accorgercene: le abitudini durevoli si formano così.

La conversazione genera fiducia

Quando abbiamo creato la nostra voce umana della tecnologia, siamo partiti da qui: creare un processo fluido, per eliminare gli ostacoli di comprensione. Dirlo è sempre più facile che farlo, le sfumature di una conversazione umana sono infinite. E parte dalla scelta delle parole: saremo amichevoli o simpatici? Positivi o casual?
Per noi, una buona bussola è stata uno studio del Norman Nielsen Group sul tono di voce basato su interviste e test. Il risultato dice che un brand diventa desiderabile non perché amichevole o simpatico, ma perché genera fiducia.
E la fiducia cresce più velocemente quando l’interfaccia è conversazionale, cioé quando segue le regole della conversazione. 


Creare una conversazione digitale dalla voce umana

“Ho imparato che le persone possono dimenticare ciò che hai detto, possono dimenticare ciò che hai fatto, ma non dimenticheranno mai come le hai fatte sentire”.

 Eric Wong, Senior UX writer di Google (la citazione è della poetessa Maya Angelou)

Il punto di partenza per creare una voce umana è quindi ascoltare prima di parlare, e poi capire le emozioni degli interlocutori, usare un linguaggio giusto e rispondere a tono.
Clifford Nass, docente a Stafford e tra le divinità del nostro Pantheon personale, lo dice benissimo in “The Man Who Lied to His Laptop“: le persone si rivolgono alla tecnologia come se fosse un’altra persona.
Ne abbiamo parlato molto in Emotion Driven Design (lo trovi qui ): avere una voce gentile (in senso stilnovistico) in una conversazione digitale migliora la nostra predisposizione a interagire.
Fino a qui, tutto bene: per definire una voce gentile dobbiamo prima capire com’è fatta una conversazione.

Il principio cooperativo

Una conversazione è una serie di scambi nei quali ci capiamo a vicenda e costruiamo una relazione che evolve nel tempo. È basata sul principio cooperativo: chi parla collabora con chi ascolta secondo regole di logica e di pertinenza.
Per spiegarlo basta pensare a quella prodigiosa tecnica che impariamo sin dall’infanzia: se vogliamo indispettire una persona che sta parlando con noi, ci basta non rispondere a tono, o non rispondere e basta.
Quando costruiamo la voce di un brand o di un prodotto digitale dobbiamo quindi immaginare come si adatterà a tutte le interazioni con le persone che useranno quel brand o prodotto.

Galateo di una conversazione digitale

Il galateo è un sistema di norme di comportamento. Quelle della conversazione si chiamano massime conversazionali, le ha definite il filosofo Paul Grice e sembrano fatte apposta per spiegare lo UX Writing che funziona:

  • quantità: devo dare solo l’informazione necessaria. Se do troppi dettagli (per esempio, se nel messaggio di errore mi dilungo nel dettaglio del problema tecnico) entro automaticamente in zona Furio; 
  • qualità: devo offrire una informazione veritiera. Non dirò una cosa che suona falsa anche a me o sulla quale non ho prove. Se pensiamo ai dark pattern, scopriamo che è una delle regole più disattese ma attenzione, come persone ce ne accorgiamo;
  • relazione: devo dare informazioni pertinenti. Mi ricorda il caso di Trenitalia: se mentre acquisti un biglietto fai un errore di compilazione del modulo, l’interfaccia ti segnala l’errore e nello stesso tempo prova a venderti la Carta Fedeltà. Olé; 
  • modo: dobbiamo evitare le ambiguità.

Se un’interfaccia non è chiara, lascia zone d’ombra e non ci fa capire quale esito avrà la nostra azione, la conversazione morirà lì, e senza dispiacere.
E sarà impossibile dare la tanto agognata voce umana alla tecnologia.    

Fonti: 

  • The impact of Tone of Voice 
  • Logic and conversation 
  • The man who lied to his laptop

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Costruire un linguaggio inclusivo

Febbraio 4, 2021 da Officina Microtesti

Tempo fa mi hanno invitato a parlare a Talk UX, una conferenza internazionale dedicata al design e alla tecnologia al femminile. Il tema di quest’anno è lo human centered design; ho fatto la quadra con gli argomenti che mi piacciono di più e ho deciso di parlare di scrittura e linguaggio inclusivo e accessibile. 
Mentre mettevo insieme i pensieri, mi sono resa conto che per essere accessibile la scrittura deve essere inclusiva.
Anzi, che senza inclusione non c’è accessibilità.

Messaggi per tutte e di tutte le persone 

Includere significa portare dentro chi è fuori. Per farlo dobbiamo prima riconoscere cos’è fuori, e quali sono i motivi che hanno separato questi due spazi.
Se vogliamo essere designer di parole qualche responsabilità però ci tocca, anche se non ci piace o preferiremmo fare altro piuttosto che entrare in questioni spinose e complicate. 
La scrittura accessibile è già di per sé complicata. Si rivolge a tutte le persone, è chiara e comprensibile nel significato linguistico e nel senso che assume nel contesto nel quale la trovo: a livello lessicale e semantico. 
Per esempio, il messaggio “Il file ha generato un errore” è chiaro e comprensibile a livello lessicale (capisco le parole della frase) ma a livello semantico no (non mi dà indicazioni, mi impedisce di fare delle azioni).  

Un testo accessibile deve essere facile da capire, dire e usare per qualsiasi persona.
Uno inclusivo anche, ma con una differenza qualitativa: deve essere facile da capire, dire e usare e far sentire ciascuna persona rappresentata nella sua individualità di valori e di scelte.

Non è una roba da beghine del Devoto-Oli, è la nostra posizione di designer che hanno il potere di influenzare con le loro parole le scelte digitali di altre persone.
Ma proviamo a restare umili.

Misurare quanto è inclusivo un testo

Misurare quanto è inclusivo un testo è difficile. Il punto di vista qui è emotivo e soggettivo e richiede uno sforzo di empatia e metacognizione. 

Se scrivo un testo accessibile per un sito della PA curo gli aspetti che lo rendono comprensibile a tutte le persone che lo useranno, se scrivo un testo inclusivo devo prima riflettere bene su cosa voglio dire e come dirlo.

L’inclusività vive nel cuore dell’informazione e nel modo in cui il pubblico che la legge la riconosce e la fa sua.

Ci sono parecchie domande scomode da farci, anche se non ci va.

  • I testi che scriviamo mostrano che parlo da una posizione di privilegio?
  • La mia visione si basa solo sulla mia esperienza o è offuscata da bias di genere?
  • Il mio testo è discriminatorio o offensivo per una parte della popolazione?

Un linguaggio inclusivo comprende tutte le persone per età, scolarizzazione, etnia e genere.
E capire se lo stiamo usando o no è facilissimo, direi matematico: se un testo non include, automaticamente esclude.

Costruire un linguaggio condiviso

Potenzialmente, tutti gli utenti di prodotti e servizi digitali possono vivere esperienze di esclusione. Il linguaggio negativo e discriminatorio ha molte forme: divieti di accesso, forzature sull’identità, esclusioni, esperienze psicologiche frustranti.

Dopo mesi di letture, posso dire che la community degli UX Writer una risposta a questo tema ce l’ha: per costruire un linguaggio inclusivo è necessario che sia condiviso.
Bello. Ma come si fa?  
Come si fa in generale non lo so, ma ti racconto come lo facciamo noi.

Vietato l’ingresso ai maggiori di 65 anni

Abbiamo scoperto che un’esperienza frustrante per molte persone è scrivere la propria età nei moduli di registrazione.

Non è un buon modo per iniziare una relazione umana o commerciale, e per questo il box dell’età non lo inseriamo mai.
Se il cliente arriva a minacciare di non pagarci se non lo inseriamo, scegliamo le fasce d’età (personalmente sono a cavallo di una di queste fasce e allora dichiaro il falso per ripicca).
Alcuni siti considerano come età accettabile dai 18 ai 65+. Varrebbe la pena ricordare che l’età della popolazione mondiale cresce, e che 65+ può arrivare a comprendere parecchi decenni di pensioni e di fette di mercato, per parlare solo in termine di dané

Genere o sesso

C’è ancora molta confusione sulla differenza fra genere e sesso.
Il sesso è il genere che abbiamo alla nascita, il genere è l’identità alla quale sentiamo di appartenere o di non appartenere.

Per questo è corretto chiedere il genere aggiungendo alla classica divisione F/M anche altre voci: le più comuni sono “altro”, “non binary”, “preferisco non dirlo”. Altro è orribile: sembra dire che c’è una cosa giusta e un’altra cosa. Anche “non binary/non binario” è simile. La soluzione migliore sarebbe permettere alla persona di autodefinirsi, in un campo libero.
In italiano e nella maggior parte delle lingue, il campo del genere è superfluo e va inserito solo se strettamente necessario.

Più complicata la questione del pronome: in inglese si usa “they/them” al posto di “she/her” e “him/his”, noi non abbiamo un vero e proprio neutro, ma valgono le regole per evitare i maschili (o femminili) usando sostantivi o le solite soluzioni punk.

Professioni e no

Abbiamo smesso di dire che Photoshop è per graphic designer, fotografi, illustratori e 3D artists. Diciamo invece: Photoshop ti aiuta a creare grafici, fotografie, illustrazioni e 3D art. È un passaggio sottile che va da una forma prescrittiva e esclusiva a una più inclusiva. Il linguaggio assegna un valore alle parole: se dico che una persona è confinata su una sedia a rotelle do un giudizio, se dico che usa la sedia a rotelle libero la frase.”

Andy Welfle, Product Content Strategist per Adobe

Prodotti per chi?

Se il nostro linguaggio dice a un potenziale utente che nella progettazione non abbiamo pensato alle esperienze che farà, non userà i nostri prodotti.
Sara Watcher-Boettcher, Coach, Strategist e autrice di Technically Wrong: Sexist Apps, Biased Algorithms, and Other Threats of Toxic Tech, ha parlato spesso di app di fitness che danno per scontato che chi le userà è in forma e vuole migliorare le proprie prestazioni. I messaggi premiano chi supera gli obiettivi fissati e mostrano emoji scontente per performance “disallineate”.
Cosa succede però se a usarle è una persona in riabilitazione o che ha caratteristiche fisiche o psicologiche non previste dalle impostazioni iniziali?     

Punti di vista diversi

Torneremo ancora su questo tema. Qualche soluzione per migliorare l’inclusione però c’è: 
1. Cambiare prospettiva. Se devo chiedere “Chi è il proprietario dell’auto?” posso dire “A chi appartiene l’auto”. L’oggetto della domanda non è più la persona, ma il bene.   
2. Spiegare meglio. Le parole hanno potere, e chi le usa di più. Spiegare permette alle persone di avvicinare i prodotti, i servizi, e capire se fanno per loro, in qualsiasi condizione.
4. Eliminare quello che non serve. Ci sono dati non necessari, che fanno polvere nei database e servono solo per alimentare il delirio di onnipotenza. Il dato in sé non ha valore. Ce l’ha il motivo per cui lo chiediamo.  

Bibliografia: 

  • Design for guidance by Microsoft
  • How to begin disegning for diversity
  • This is HCD – Michael J. Metts & Andy Welfle
  • Writing is designing 
  • Inclusive Design: Making Websites Accessible to Everyone

Ti è piaciuto questo articolo? Lo trovi nel numero #3 di Caipiroska, la nostra newsletter di parole per la user experience e service design comportamentale.
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Il magico potere delle parole

Settembre 21, 2020 da Officina Microtesti

L’ansia è un’emozione importante per la nostra vita in digitale.

Qui a Officina Microtesti va per la maggiore; Andrea la definisce la nostra emozione guida.
L’ansia è pervasiva, si nutre delle incertezze della vita reale e dei processi online, ha connotazioni specifiche. Oltre alle reazioni fisiche, ha delle conseguenze sul nostro comportamento. Ci spinge a cercare conforto e aiuto dagli altri.
Ma chi sono gli altri in una relazione digitale?

Nella maggior parte dei casi, un messaggio di conferma, delle FAQ, un chatbot di assistenza, o un indirizzo email per rivolgersi virtualmente a una persona in carne e ossa che, dopo aver usato le sue migliori competenze di persona in carne e ossa, ci risponderà attraverso un servizio virtuale.

Fidarsi ed essere soddisfatti da un brand, un servizio o un prodotto dipende dal blocco di emozioni e di pensieri che attraversa la relazione digitale. Le nostre scelte e decisioni sono intimamente connesse alle parole umane, frammentate dentro interazioni brevissime: Google le chiama micromomenti.

E quando l’elemento umano manca, resta la tecnologia.

Tecnologia a prova di persone

Quando parlo di tecnologia con la mia user persona (mia madre, olimpionica di ansia), so già che la considera una cosa da ingegneri, tecnici che fanno cose incomprensibili sulla base della loro visione, il loro modello mentale.
Non lo pensa solo la mia user persona: come utenti abbiamo imparato a decodificare il linguaggio della tecnologia con il nostro modello mentale, costruito con l’esperienza di vita davanti e dietro lo schermo.
Se siamo in ansia, quella distanza di visione emerge dalle profondità come un sommergibile atomico e affonda le nostre certezze.

Le parole digitali diventano all’improvviso impenetrabili, e ci spingono a rifugiarci nella nostra tana: la voce amica di una persona.

Per ripristinare l’autostima delle persone, aumentare la fiducia nel brand, rafforzare le relazioni a lungo termine, abbiamo bisogno allora di una tecnologia umana.

Il magico potere delle parole

Cosa rende tanto speciali gli esseri umani? Lapalissianamente, direi proprio essere umani.
L’empatia, cioè sentire le nostre emozioni, la metacognizione, cioè saper riflettere sui loro e quindi sui nostri pensieri.
Subito dopo la voce, quel megafono di emozioni e pensieri che si manifestano attraverso il magico potere delle parole.
Tutto questo ci fa riconoscere l’altro come simile a noi. 

Can’t read won’t buy

Lo dice la scienza: abbiamo paura della tecnologia (testo, microtesto o le emoji di un chatbot) perché can’t read won’t buy.
Se non capisco il tuo linguaggio, non compro. Punto e a capo.
Abbiamo paura perché temiamo di non capire cosa sta accadendo, e quale sia il nostro ruolo nell’interazione col sito o l’app. Più una situazione ci tocca in profondità e svela le nostre emozioni intime, più abbiamo bisogno di un linguaggio informale, quotidiano, rassicurante.
La nostra lingua madre.

Effetto underwear

Renato Beninatto, CEO di Nimdzi lo chiama “the underwear effect“, l’Effetto Abbigliamento Intimo. Io però sono un po’ camionista, e lo chiamerò Effetto mutanda.
Indica tutti quei momenti in cui prendiamo decisioni chattando o navigando dallo smartphone in mutande. Gli studi dicono che quando siamo nudi, fisicamente e soprattutto emotivamente, alla lingua formale preferiamo un linguaggio colloquiale e accessibile, che sia gergo familiare o il nostro dialetto natio. 

Per questo motivo lo shampoo in Olanda ha le istruzioni in olandese anche se tutti sanno l’inglese e come si usa uno shampoo.

Dal tecnichese all’umano

Il nostro mestiere di designer di parole ci chiede di adottare una visione del mondo alla portata di tutti.
Scegliere un linguaggio usabile non significa appiattire, ma allargare a una platea più grande, che legge quando è felice, quando è triste e quando è in ansia.
Vuol dire scrivere nella lingua madre anche se tutti parlano benissimo quella ufficiale.
È un lavoro a più livelli: siamo traduttori, perché convertiamo le parole tra due sistemi linguistici – dal tecnichese all’umano, dal formale all’informale.
Siamo localizzatori, perché trasformiamo le parole in contenuti rilevanti e appropriati per le competenze di chi legge, adatti a tutti. Per il bene dell’ansia, del branding, del marketing, della user experience. 

Per entrare nelle case e sederci al tavolo delle abitudini dei nostri utenti, dobbiamo diventare localizzatori emotivi capaci di leggere il contesto, e restituire alla conversazione i colori e i profumi più adatti a chi siede accanto a noi.
Per evitare quella sensazione glaciale che renderà i nostri lettori più distanti e diffidenti. 

Ti è piaciuto questo articolo? Lo trovi nel numero #2 di Caipiroska, la nostra newsletter di UX Writing e service design comportamentale.
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Foto: Cristian Escobar per Unsplash

Bibliografia:

  • Harvard Business Review
  • Nimzi Research
  • Common sense advisory 

Cos’è lo UX Writing, per noi

Agosto 27, 2020 da Officina Microtesti

C’è una definizione di UX Writing che qui a Officina Microtesti ci piace moltissimo.

L’ha scritta lo UX Content Strategist Steffen P. Bauer in un tweet e riassume tutto quello quello che pensavamo già, però meglio:

Lo UX Writing non riguarda la scrittura, ma la nostra capacità di pensare per sistemi e usare questi sistemi per informare gli utenti delle decisioni che prendiamo a livello di interfaccia.

Traduciamo per comodità: lo UX Writing è un processo di comunicazione che passa attraverso le interazioni che abbiamo con un sito web o un’app. 
Per far fare qualcosa a una persona (scaricare un documento, iscriversi a un servizio, fare un corso online, acquistare un paio di scarpe, etc.) dovrò:

  1. pensare a tutti i passaggi che farà, cioé quali interazioni avrà col sito web o l’app;
  2. progettare i contenuti, cioé pensare passo dopo passo a cosa avrà bisogno di sapere per proseguire;
  3. scrivere i microtesti che la guideranno e la faranno arrivare all’obiettivo senza tirare giù il calendario.

Per noi, lo UX Writing è un pezzo di user experience e un pezzo di writing.
Nel libro Emotion driven design abbiamo chiamato questi due pezzi il “cosa” e il “come”.

Il cosa e il come

Il “cosa” dello UX Writing (e della comunicazione) è il suo cuore strategico: l’intenzione.

Voglio che l’utente segua il tutorial per imparare a usare un’app di fitness casalingo. Se i passaggi saranno semplici e intuibili, probabilmente la userà e acquisterà anche la versione Premium.

Per farlo dovrò progettare delle interazioni facili, spiegate bene e passo dopo passo. E soprattutto ricordare che davanti ho un essere umano che prova delle emozioni, guarda il mondo, pensa e parla in un certo modo, ha una memoria e un’attenzione limitati (perché oltre all’app, ha anche una vita).

Dopo aver disegnato tutti i passi che servono per seguire il tutorial, scriverò i microtesti. Devono essere facili da capire, dare la giusta quantità di informazioni con la voce, il tono e le parole più adatte alle persone che useranno l’app. 

I microtesti del tutorial (e dell’app) non faranno mai sentire le persone in difficoltà, inadeguate o non all’altezza. Troppo grasse, troppo magre, fuori forma o ignoranti rispetto al gergo tecnico del fitness o della tecnologia dell’app.  

Per noi, il linguaggio è il patrimonio dell’umanità e per questo deve restare democratico, comprensibile, abilitante e rispettoso delle emozioni e dei modelli mentali (ci piace pensare che sarà il linguaggio del futuro: qui c’è un video che ne parla).

Nella ricerca di una etichetta abbiamo fatto un fantasmagorico sforzo di creatività e l’abbiamo chiamato il “come”.

Lo UX Writing è progettare sistemi astratti e dare loro una forma concreta con il linguaggio: i microcopy.
I microcopy non sono soltanto parole carine o divertenti. Sono piccoli blocchi di testo densi della nostra esperienza umana.
Ci proteggono, ci aiutano, ci guidano dentro la giungla tecnologica.
Se c’è un torrente da passare, fanno da ponte. Se c’è una parete ripida, lo scalino.  


Ogni mese, parliamo di UX Writing e psicologia in una newsletter tematica che si chiama Caipiroska.
Se vuoi scoprire tutto, ma tutto tutto, sulla scrittura per le user experience e la psicologia del design e del marketing, iscriviti qui.

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