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Behavioral Design

La voce umana della tecnologia

Febbraio 11, 2021 da Valentina Di Michele

Ci hanno affidato il compito di dare una personalità unica a un brand che possiede un sistema articolato di siti web, app e chatbot, con una richiesta specifica: dare una voce umana alla tecnologia.
Il compito ci è sembrato subito facile, una passeggiata: ovviamente non era così. Com’è fatta la voce umana della tecnologia?
In questo articolo parliamo di conversazioni umane e interfacce digitali.

La facilità è fluida

Pensiamo a una scena fantascientifica (in questo momento storico): sono a una festa, non conosco nessuno. Un gruppo di persone parla di qualcosa che mi è familiare, per argomento o per linguaggio: entrare in chiacchiere è semplice.
Nel digitale, l’altra regole di conversazione che funziona è basata sulla fluidità: una informazione familiare, cioé scritta in modo accessibile, mi rassicura e mi dà la sensazione che quell’interfaccia voglia creare con me una relazione duratura.   
La sensazione di facilità piace al nostro cervello, e in particolare al sistema che elabora i dati in modo semi-automatico.

Il Sistema 1 (si chiama così) crea uno schemino agile:
più facile = migliore = più affidabile = più piacevole.
In una parola, preferibile. 

Il Nintendo Effect

Dopo aver visto in TV la pubblicità del Nintendo Ring Fit, abbiamo chiamato questa sensazione Nintendo Effect.
Il Nintendo Ring Fit è un videogame che ti permette di giocare mentre ti alleni: in pratica fai gli addominali con il ring del pilates mentre spari ai mostroni. 
Si suda come in spiaggia ad agosto ma il cervello non percepisce la fatica e lo stress dell’attività fisica.

Otteniamo un obiettivo (restare in forma) quasi senza accorgercene: le abitudini durevoli si formano così.

La conversazione genera fiducia

Quando abbiamo creato la nostra voce umana della tecnologia, siamo partiti da qui: creare un processo fluido, per eliminare gli ostacoli di comprensione. Dirlo è sempre più facile che farlo, le sfumature di una conversazione umana sono infinite. E parte dalla scelta delle parole: saremo amichevoli o simpatici? Positivi o casual?
Per noi, una buona bussola è stata uno studio del Norman Nielsen Group sul tono di voce basato su interviste e test. Il risultato dice che un brand diventa desiderabile non perché amichevole o simpatico, ma perché genera fiducia.
E la fiducia cresce più velocemente quando l’interfaccia è conversazionale, cioé quando segue le regole della conversazione. 


Creare una conversazione digitale dalla voce umana

“Ho imparato che le persone possono dimenticare ciò che hai detto, possono dimenticare ciò che hai fatto, ma non dimenticheranno mai come le hai fatte sentire”.

 Eric Wong, Senior UX writer di Google (la citazione è della poetessa Maya Angelou)

Il punto di partenza per creare una voce umana è quindi ascoltare prima di parlare, e poi capire le emozioni degli interlocutori, usare un linguaggio giusto e rispondere a tono.
Clifford Nass, docente a Stafford e tra le divinità del nostro Pantheon personale, lo dice benissimo in “The Man Who Lied to His Laptop“: le persone si rivolgono alla tecnologia come se fosse un’altra persona.
Ne abbiamo parlato molto in Emotion Driven Design (lo trovi qui ): avere una voce gentile (in senso stilnovistico) in una conversazione digitale migliora la nostra predisposizione a interagire.
Fino a qui, tutto bene: per definire una voce gentile dobbiamo prima capire com’è fatta una conversazione.

Il principio cooperativo

Una conversazione è una serie di scambi nei quali ci capiamo a vicenda e costruiamo una relazione che evolve nel tempo. È basata sul principio cooperativo: chi parla collabora con chi ascolta secondo regole di logica e di pertinenza.
Per spiegarlo basta pensare a quella prodigiosa tecnica che impariamo sin dall’infanzia: se vogliamo indispettire una persona che sta parlando con noi, ci basta non rispondere a tono, o non rispondere e basta.
Quando costruiamo la voce di un brand o di un prodotto digitale dobbiamo quindi immaginare come si adatterà a tutte le interazioni con le persone che useranno quel brand o prodotto.

Galateo di una conversazione digitale

Il galateo è un sistema di norme di comportamento. Quelle della conversazione si chiamano massime conversazionali, le ha definite il filosofo Paul Grice e sembrano fatte apposta per spiegare lo UX Writing che funziona:

  • quantità: devo dare solo l’informazione necessaria. Se do troppi dettagli (per esempio, se nel messaggio di errore mi dilungo nel dettaglio del problema tecnico) entro automaticamente in zona Furio; 
  • qualità: devo offrire una informazione veritiera. Non dirò una cosa che suona falsa anche a me o sulla quale non ho prove. Se pensiamo ai dark pattern, scopriamo che è una delle regole più disattese ma attenzione, come persone ce ne accorgiamo;
  • relazione: devo dare informazioni pertinenti. Mi ricorda il caso di Trenitalia: se mentre acquisti un biglietto fai un errore di compilazione del modulo, l’interfaccia ti segnala l’errore e nello stesso tempo prova a venderti la Carta Fedeltà. Olé; 
  • modo: dobbiamo evitare le ambiguità.

Se un’interfaccia non è chiara, lascia zone d’ombra e non ci fa capire quale esito avrà la nostra azione, la conversazione morirà lì, e senza dispiacere.
E sarà impossibile dare la tanto agognata voce umana alla tecnologia.    

Fonti: 

  • The impact of Tone of Voice 
  • Logic and conversation 
  • The man who lied to his laptop

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Il magico potere delle parole

Settembre 21, 2020 da Valentina Di Michele

L’ansia è un’emozione importante per la nostra vita in digitale.

Qui a Officina Microtesti va per la maggiore; Andrea la definisce la nostra emozione guida.
L’ansia è pervasiva, si nutre delle incertezze della vita reale e dei processi online, ha connotazioni specifiche. Oltre alle reazioni fisiche, ha delle conseguenze sul nostro comportamento. Ci spinge a cercare conforto e aiuto dagli altri.
Ma chi sono gli altri in una relazione digitale?

Nella maggior parte dei casi, un messaggio di conferma, delle FAQ, un chatbot di assistenza, o un indirizzo email per rivolgersi virtualmente a una persona in carne e ossa che, dopo aver usato le sue migliori competenze di persona in carne e ossa, ci risponderà attraverso un servizio virtuale.

Fidarsi ed essere soddisfatti da un brand, un servizio o un prodotto dipende dal blocco di emozioni e di pensieri che attraversa la relazione digitale. Le nostre scelte e decisioni sono intimamente connesse alle parole umane, frammentate dentro interazioni brevissime: Google le chiama micromomenti.

E quando l’elemento umano manca, resta la tecnologia.

Tecnologia a prova di persone

Quando parlo di tecnologia con la mia user persona (mia madre, olimpionica di ansia), so già che la considera una cosa da ingegneri, tecnici che fanno cose incomprensibili sulla base della loro visione, il loro modello mentale.
Non lo pensa solo la mia user persona: come utenti abbiamo imparato a decodificare il linguaggio della tecnologia con il nostro modello mentale, costruito con l’esperienza di vita davanti e dietro lo schermo.
Se siamo in ansia, quella distanza di visione emerge dalle profondità come un sommergibile atomico e affonda le nostre certezze.

Le parole digitali diventano all’improvviso impenetrabili, e ci spingono a rifugiarci nella nostra tana: la voce amica di una persona.

Per ripristinare l’autostima delle persone, aumentare la fiducia nel brand, rafforzare le relazioni a lungo termine, abbiamo bisogno allora di una tecnologia umana.

Il magico potere delle parole

Cosa rende tanto speciali gli esseri umani? Lapalissianamente, direi proprio essere umani.
L’empatia, cioè sentire le nostre emozioni, la metacognizione, cioè saper riflettere sui loro e quindi sui nostri pensieri.
Subito dopo la voce, quel megafono di emozioni e pensieri che si manifestano attraverso il magico potere delle parole.
Tutto questo ci fa riconoscere l’altro come simile a noi. 

Can’t read won’t buy

Lo dice la scienza: abbiamo paura della tecnologia (testo, microtesto o le emoji di un chatbot) perché can’t read won’t buy.
Se non capisco il tuo linguaggio, non compro. Punto e a capo.
Abbiamo paura perché temiamo di non capire cosa sta accadendo, e quale sia il nostro ruolo nell’interazione col sito o l’app. Più una situazione ci tocca in profondità e svela le nostre emozioni intime, più abbiamo bisogno di un linguaggio informale, quotidiano, rassicurante.
La nostra lingua madre.

Effetto underwear

Renato Beninatto, CEO di Nimdzi lo chiama “the underwear effect“, l’Effetto Abbigliamento Intimo. Io però sono un po’ camionista, e lo chiamerò Effetto mutanda.
Indica tutti quei momenti in cui prendiamo decisioni chattando o navigando dallo smartphone in mutande. Gli studi dicono che quando siamo nudi, fisicamente e soprattutto emotivamente, alla lingua formale preferiamo un linguaggio colloquiale e accessibile, che sia gergo familiare o il nostro dialetto natio. 

Per questo motivo lo shampoo in Olanda ha le istruzioni in olandese anche se tutti sanno l’inglese e come si usa uno shampoo.

Dal tecnichese all’umano

Il nostro mestiere di designer di parole ci chiede di adottare una visione del mondo alla portata di tutti.
Scegliere un linguaggio usabile non significa appiattire, ma allargare a una platea più grande, che legge quando è felice, quando è triste e quando è in ansia.
Vuol dire scrivere nella lingua madre anche se tutti parlano benissimo quella ufficiale.
È un lavoro a più livelli: siamo traduttori, perché convertiamo le parole tra due sistemi linguistici – dal tecnichese all’umano, dal formale all’informale.
Siamo localizzatori, perché trasformiamo le parole in contenuti rilevanti e appropriati per le competenze di chi legge, adatti a tutti. Per il bene dell’ansia, del branding, del marketing, della user experience. 

Per entrare nelle case e sederci al tavolo delle abitudini dei nostri utenti, dobbiamo diventare localizzatori emotivi capaci di leggere il contesto, e restituire alla conversazione i colori e i profumi più adatti a chi siede accanto a noi.
Per evitare quella sensazione glaciale che renderà i nostri lettori più distanti e diffidenti. 

Ti è piaciuto questo articolo? Lo trovi nel numero #2 di Caipiroska, la nostra newsletter di UX Writing e service design comportamentale.
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Foto: Cristian Escobar per Unsplash

Bibliografia:

  • Harvard Business Review
  • Nimzi Research
  • Common sense advisory 

Come si scrivono Call to Action efficaci

Febbraio 1, 2019 da Andrea Fiacchi

Trovare le regole per scrivere call to action efficaci è il Sacro Graal dell’UX writing.
Qui non troverai la risposta definitiva, ma tre consigli utili basati sulla ricerca psicologica. 

Cosa sono le Call To Action

Le Call To Action sono inviti all’azione, o meglio istruzioni che guidano le persone a compiere un’azione specifica come cliccare, entrare in un’area riservata, scaricare un documento o inviare un modulo.
Possono essere pulsanti o testi o tutti e due insieme.

Sono la forma più conosciuta di microtesti, e sono considerate universalmente come lo strumento principale della nostra vita in digitale.
Quando parliamo di Call To Action facciamo spesso riferimento a Don’t Make me Think di Steve Krug, una delle letture fondamentali per chi si occupa di ux design, usabilità e web marketing.
Sulle regole per vendere di più e trasformare le persone in clienti con le Call To Action è stato detto quasi tutto.
Noi abbiamo tre consigli utili, basati sulla ricerca psicologica (le neuroscienze o cognitive UX design o behavioural design):

  1. Sfrutta la storia di sé del tuo pubblico target;
  2. Usa i sostantivi; 
  3. Non risparmiare sulle parole.

Sfrutta la storia di sé del tuo pubblico target

Call to Action efficaci
fonte: Unsplash – Rawpixel.

Noi tutti abbiamo un’idea più o meno chiara di chi siamo, cosa ci piace e perché ci comportiamo in un certo modo. 
In psicologia, questa idea si chiama “storia di sé”: è quello che raccontiamo agli altri e a noi stessi e che ci definisce come persone.

La storia di sé tende a essere coerente e stabile. 

Ci piace essere coerenti con le nostre storie di sé: se sono un fanatico del Progressive anni ’70 tenderò a pensare bene di tutta la musica di quel genere (anche quella inascoltabile!), mi piaceranno i virtuosismi e proverò un intimo orrore per le canzonette da classifica (faccio un esempio basato su persone che conosco bene!).

Per scrivere call to action efficaci è importante fare delle ricerche sul nostro pubblico target (cioè quello a cui ci rivolgiamo) e capire qual è la storia di sé delle persone che vogliamo raggiungere.

Un esempio.

Voglio far iscrivere le persone a una gara podistica in città per raccogliere fondi di beneficienza.
Ho almeno due scenari davanti:

– le persone partecipano perché sono interessate alla causa benefica;
– le persone partecipano perché sono interessate all’aspetto salutista del jogging.
Sono due storie di sé molto diverse e conoscerle mi aiuta a progettare una call to action adeguata.

Nel primo caso sarà efficace una call to action: “Mi iscrivo per dare una mano”( o “Voglio dare una mano” o “Voglio aiutarvi”).
Nel secondo sarà efficace la call to action: “ Sono pronto a correre 5 km” (o “Voglio correre con voi”)
Se riusciamo a cucire le parole addosso alla storia di sé delle persone che visualizzano le nostre call to action, le spingeremo a fare l’azione che ci aspettiamo.

Esempi di call to action efficaci
Esempi di Call To Action efficace

Usa i sostantivi

Fonte: Unsplash – Raphael Schaller

Sì, hai letto bene: parliamo proprio di sostantivi.
Una ricerca di Bryan e Walton (2011) ha dimostrato che le Call to Action che usano sostantivi sono più efficaci di quelle con i verbi.

COSA? Dopo anni passati a ripetere di usare i verbi perché stimolano l’azione adesso ribaltiamo tutto?
No, non proprio.
La ricerca mette in parallelo alcune Call to Action usate per partecipare a votazioni elettorali in California.
(Negli Stati Uniti per votare bisogna iscriversi alle liste elettorali. Gli elettori si registrano volontariamente e per questo motivo l’affluenza alle urne è più bassa che in altri Paesi occidentali).
Le due varianti erano:
– Voglio essere un elettore alle prossime elezioni (condizione con sostantivo);
– Voglio votare alle prossime elezioni (condizione con verbo).

I ricercatori hanno diviso i votanti in due gruppi sulla base del loro interesse ad andare a votare:
– le persone che hanno scelto la prima variante (la condizione con sostantivo) sono state la maggioranza, cioè il 62.5%;
– le persone che hanno scelto la seconda variante (la condizione con il verbo) sono state la minoranza, cioè il 38.9%.
L’interesse si è poi manifestato in comportamenti di voto reali: la condizione con sostantivo ha portato l’11% in più di persone alle urne.

In realtà non si tratta quindi di eliminare il verbo ma di usare una storia di sé. La Call to Action più efficace è quella che spinge le persone a identificarsi con una storia di sé positiva (“sono un elettore attivo”, “sono un cittadino che decide e sceglie”) invece che che fare solo un’azione come andare a votare.

Non risparmiare sulle parole

Principi di UX Writing
Fonte: Unsplash – Rawpixel

Siamo abituati a Call to Action che usano comandi secchi: Registrati! Iscriviti! Invia!
Nelle interfacce online le persone seguono le stesse regole di interazione della vita quotidiana.
Per questo è meglio usare Call to Action che spiegano di più, che guidano la persona verso l’azione piuttosto che quelle che ordinano di farlo.

Se voglio far iscrivere un imprenditore a un progetto che promuove la sua azienda all’estero, la Call to Action efficace sarà:
– Fai conoscere la tua azienda agli investitori stranieri;
– Porta la tua impresa nei mercati esteri;
– Fai crescere la tua impresa all’estero;
piuttosto che la più fredda e generica Iscriviti.

Vuoi conoscere meglio l’UX Writer o condividere le tue esperienze con i microtesti? Partecipa alle discussioni nel gruppo Microcopy & UX Writing Italia.

Il principio dello spacchettamento e lo shopping online

Gennaio 10, 2019 da Valentina Di Michele

Tra due prodotti in un e-shop, sceglieresti quello con una descrizione più precisa o quello raccontato in poche righe?

Le persone tendono a scegliere i prodotti che hanno una presentazione più dettagliata: lo facciamo per un pregiudizio cognitivo chiamato principio dello spacchettamento, e ci spiega perché il content di valore fa sempre la differenza.

Qualche giorno fa cercavo online un paio di calze da trekking. Sono un prodotto tecnico, e hanno caratteristiche che in escursioni lunghe o impegnative possono fare la differenza.
Avevo in mente alcuni requisiti minimi, e dopo una ricerca estenuante e un numero impossibile di schede prodotto, ho trovato quelle che facevano per me.

Cosa mi ha convinto a scegliere?
A mente fredda, direi la percezione della qualità del prodotto e il rapporto qualità/prezzo vantaggioso.

Questo, però, non è del tutto vero.
Tra i prodotti di brand che non conoscevo e a parità di prezzo, ho scelto le calze che avevano la descrizione più dettagliata e che contenevano i requisiti che avevo in mente e molti altri ai quali non avevo pensato.

Il principio dello Spacchettamento

Il motivo della mia scelta è un bias cognitivo, una valutazione di una situazione che la nostra mente basa su esperienze passate e che ci permette di creare un “repertorio” di giudizi prêt-a-porter.
Il Principio dello Spacchettamento (o unpacking principle) è il bias che ci fa pensare che la descrizione più ricca corrisponda a una esperienza più ricca.

Anzi, l’abbondanza di dettagli mi ha fatto pensare che le calze che ho scelto:

  1. avevano tutti i requisiti che volevo;
  2. che rispetto alle altre, avevano anche altre caratteristiche interessanti;
  3. che dati tutti gli aspetti elencati nella scheda, il prezzo era più vantaggioso delle altre.

La scheda delle calze da trekking che ho acquistato mi dice:

  • per quale uso sono pensate, e cioè a cosa servono, che in termini di user experience è già una delizia del palato;
  • il motivo per cui dovrei acquistarle. I vantaggi: sono leggere e termoisolanti e dato che siamo ai saldi invernali per me è musica;
  • le caratteristiche di composizione: materiale e cuciture, così da soddisfare la mia sete di informazioni da nerd di nicchia;
  • i fronzoli: colore e altre variabili che mi rendono più chic anche quando sudo.
Spacchettamento e e-commerce
Il principio dello spacchettamento nell’e-commerce

Tra le schede dei prodotti che non ho acquistato ce n’è una che mi aveva convinto per l’immagine, perché la forma delle calze mi piaceva ma non aveva dettagli a supporto. Costava anche qualcosa meno, aveva un marchio dal nome convincente che richiamava l’esperienza nel trekking.

Mi piaci, sei brava ma per me è no.

Calzini e ecommerce
Il principio dello spacchettamento nell’e-commerce

I microtesti fanno la differenza

Potrei generalizzare e dire che il contenuto fa la differenza: sarebbe vero comunque.
I microtesti o UX Writing sono i testi brevi che troviamo nelle schede prodotto, quelli che mi hanno spinto all’acquisto.
Insieme alla struttura e alle immagini hanno il compito ingrato di convincermi a compiere un’operazione.

Il contenuto di qualità fa davvero la differenza perché riesce a raccontare in uno spazio ridotto quello che voglio sentirmi dire.

Che quel prodotto o servizio è giusto per me, che è quello che cercavo e che mi restituirà più di quello che chiedevo.

Lieto fine?

Le calze che ho acquistato arrivano domani (se ne hai bisogno, io le ho cercate qui). Finalmente scoprirò se potrò continuare a voler bene all’UX Writer o Product manager o la persona di qualsiasi ruolo che ha scritto la descrizione.

Il Principio dello Spacchettamento mi ha convinto a scegliere il tanto al posto del poco, ma questo non mi dice se il prodotto abbia in realtà la qualità migliore.

Abbiamo anche una morale della favola: scrivi bene. Il resto verrà.

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